Pillole di SpiritualiTà
Il Rosario si pone nella migliore e più collaudata tradizione della contemplazione cristiana. (San Giovanni Paolo II)
La Sacra Scrittura, la Tradizione Apostolica e il Magistero della Chiesa
La trasmissione della Rivelazione Divina
(CCC 74-83)
1. La Rivelazione: una “tradizione” da “trasmettere” (CCC 74)
Con la Rivelazione Dio si fa presente dentro la storia coinvolgendosi, con eventi e parole, direttamente con l’esperienza umana. Ma come questo manifestarsi di Dio potrà raggiungere chi nel tempo e nello spazio non è stato né testimone diretto né destinatario di tali eventi e parole?
Il tema della trasmissione (o Tradizione, dal lat. tradere, trasmettere) della Rivelazione che raggiunga nel tempo le diverse generazioni, può essere ricondotto ad un dato innanzitutto antropologico, oltre che ad essere una dinamica ordinaria della cultura ebraica. D’altronde, tramandare è un’azione propria della cultura (che tende a proteggere e conservare la sua peculiare identità) mediante la memoria delle esperienze più significative che sono all’origine e che segnano la sua storia. L’uomo, infatti, non vive in una situazione di isolamento, ma la sua vita è intessuta da una trama di rapporti e di dinamiche interpersonali che sono all’origine della sua stessa individualità e che si sviluppa in un retroterra culturale che lo precede. Non sarebbe stato possibile nessun progresso o sviluppo di civiltà, o di cultura, o di realizzazioni sociali, senza una trasmissione di esperienze, di memorie, e di conoscenze ricevute dalle precedenti generazioni. Nulla di più disastroso di qualsiasi tentativo, spesso ideologico, di rompere con un passato ritenuto inutile, superato, da dimenticare. Un vero progresso non si ottiene mai partendo da zero.
L’esperienza di Israele di tramandare attraverso le generazioni la memoria dei grandi eventi salvifici operati da Dio, in particolare dell’Esodo e dell’Alleanza conclusa sul monte Sinai, va inserita in questa prospettiva antropologica fondamentale, prima ancora che religiosa.
2. La Tradizione e successione apostolica (CCC 75-79)
La Tradizione, fondata sulla predicazione apostolica, testimonia e trasmette in modo vivo e dinamico quanto la Scrittura raccoglie e codifica per mezzo di determinati testi. «Questa tradizione, che trae origine dagli apostoli, progredisce nella Chiesa sotto l'assistenza dello Spirito Santo: infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, cresce sia con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro, sia con la profonda intelligenza che essi provano delle cose spirituali, sia con la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma certo di Verità» (Dei Verbum, n. 8). Quindi, non si tratta della trasmissione di un mero passato, ma di un passato “vivo” e “dinamico”, tanto da costituire una vera e propria “continuità ontologica”, come la definiva Gherardini: «c’è, nel tessuto costituzionale della Chiesa, un passato che, grazie alla sua continuità ontologica e magisteriale, è e rimane inscindibilmente connesso con il tessuto stesso, convertendo il passato in presente e prefigurando il futuro. Si chiama Tradizione. Questa è la sua unica continuità»
La Tradizione apostolica, quindi, è sia l’atto del trasmettere il deposito della Fede ricevuto da Cristo attraverso gli Apostoli, sia il contenuto trasmesso: le verità di Fede e di Morale così come sono state dette e spiegate da Gesù, ascoltate e custodite dagli Apostoli, da loro predicate e infine consegnate ai loro successori. Come? Dapprima oralmente (di bocca in bocca), poi per iscritto. Anche dopo aver messo per iscritto quanto Cristo aveva detto, fatto e insegnato – l’estensione dei Vangeli e quindi di tutti i testi che compongono il Nuovo Testamento – la predicazione o annuncio del Vangelo continuerà a essere “misura”, “canone” o “regola di verità”.
3. Rapporto tra Tradizione e Sacra Scrittura (CCC 80-83)
(nn.80-81) Quindi, la trasmissione della Rivelazione avviene fondamentalmente in due modalità distinte, anche se strettamente connesse tra loro: Tradizione (orale) e s. Scrittura (scritta). Per quanto riguarda la modalità della Rivelazione nella sua fase scritta è opportuno riflettere su una caratteristica, propria della fede cristiana, che la differenzia dalle altre esperienze religiose. Ovvero, affermare che la Bibbia è la memoria scritta della storia della Rivelazione non equivale a rilegare il cristianesimo come una delle “religioni del Libro”. Essa non si fonda su di un “codice” ma sull’incontro dell’uomo con Dio attraverso fatti ed eventi, di cui l’avvenimento dell’Incarnazione costituisce il culmine. Pertanto, la Scrittura ha una funzione sicuramente essenziale ma solo come testimonianza scritta degli eventi della storia della salvezza.
(nn. 82-83) Inoltre, gli insegnamenti del Magistero della Chiesa, quello dei Santi Padri, la Liturgia, il comune sentire dei fedeli che vivono in grazia di Dio, ma anche dinamiche ordinarie come l’educazione cristiana dei fanciulli nella famiglia o l’apostolato cristiano, sono canali che alimentano la trasmissione stessa della Rivelazione. Infatti, ci ricorda lo stesso Concilio di Trento che tutto ciò che fu ricevuto dagli apostoli e trasmesso ai suoi successori, i Vescovi, «comprende tutto quanto contribuisce alla condotta santa e all'incremento della fede del popolo di Dio. Così la Chiesa, nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede». Anche se la grande Tradizione apostolica va sempre distinta dalle singole tradizioni, teologiche, liturgiche, disciplinari, ecc. il cui valore può essere limitato e anche provvisorio.
La trasmissione della Rivelazione divina come verità non può essere divisa dall’insegnamento di uno stile di vita coerente: dottrina e vita sono inseparabili. L’esperienza cristiana infatti, presuppone un incontro, con Cristo vivo e presente qui ed ora, che cambia la vita di ciascuno. Per questo motivo, quando la Chiesa parla della trasmissione della Rivelazione, non può non trattare della fede ma anche della morale che ne consegue.
4. L’interpretazione del deposito della fede (CCC 84-95)
(nn. 84-87) «L'ufficio di interpretare autenticamente la Parola di Dio scritta o trasmessa è stato affidato al solo Magistero vivente della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo», cioè ai vescovi in comunione con il successore di Pietro, il vescovo di Roma. Un tale Magistero, pertanto, è un vero e proprio servizio alla parola di Dio finalizzato alla salvezza delle anime. Un aspetto importante da cui si evince chiaramente che «il Magistero non è al di sopra della parola di Dio, ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l'assistenza dello Spirito santo, piamente la ascolta, santamente la custodisce e fedelmente la espone, e da questi unici depositi della fede attinge tutto ciò che propone da credere come rivelato da Dio» (Dei Verbum 10). Quindi il Magistero autentico della Chiesa è la trasmissione fedele di tutto ciò che è il contenuto della Tradizione apostolica da cui prende forma la dottrina della fede e della morale
La sacra Scrittura, la Tradizione e il Magistero della Chiesa sono quindi strettamente connessi e tra di loro inseparabili. Una vera e propria unità garantita dallo Spirito Santo, autore della Scrittura, protagonista della Tradizione viva della Chiesa, guida del Magistero che assiste con i suoi carismi. Ogni tentativo fatto nella storia di separare in qualche modo queste tre realtà ha generato gravi errori nella trasmissione della vera fede. L’esempio più noto è la riforma attuata da Lutero e che è all’origine delle chiese protestanti. In sintesi, Lutero volle staccare la S. Scrittura, dalla Tradizione e dal Magistero della Chiesa (sola scriptura) lasciandone l’interpretazione ai singoli fedeli: una operazione che è tutt’ora la causa principale di una continua dispersione delle stesse confessioni protestanti. Una impostazione che di per sé è insostenibile anche per loro poiché ogni testo ha bisogno di un contesto, di una tradizione appunto, entro il quale leggerlo e interpretarlo. Oppure, quella tendenza a un esagerato «biblicismo» che – senza volerlo – riproduce il sola Scriptura protestante, tralasciando (in ambito cattolico) l’apporto della tradizione della Chiesa, dell’approfondimento del Magistero di determinate tematiche della vita cristiana. Anche in questo caso, si rischia una separazione tra S. Scrittura, Tradizione e Magistero. E non meno diffuso quel filone molto variegato di un certo “spiritualismo” biblico che porta ad accostare il testo biblico con una certa propensione intimistica che riduce la S. Scrittura a dei contenuti del tutto soggettivi ed interiori, staccandola dal suo senso oggettivo e da quanto sia la Tradizione che il Magistero insegnano. A tal proposito, Benedetto XVI, ci ricordava che “un’autentica interpretazione della Bibbia deve essere sempre in armonica concordanza con la fede della Chiesa cattolica. Così san Girolamo si rivolgeva ad un sacerdote: «Rimani fermamente attaccato alla dottrina tradizionale che ti è stata insegnata, affinché tu possa esortare secondo la sana dottrina e confutare coloro che la contraddicono».”
(nn. 88-90) Un insegnamento, inoltre, che si fonda “sulla pienezza dell’autorità di Cristo” quando definisce certi contenuti fondamentali della fede attraverso il “dogma” (vuol dire dottrina, insegnamento) e che è immutabile. Questo genere è presente fin dai primi secoli: i contenuti fondamentali della predicazione apostolica vengono “fissati” divenendo “regola” dando forma alle professioni di fede richieste ai catecumeni nel loro percorso verso il Battesimo. Il simbolo di fede, infatti, costituisce la carta di identità della vera fede cristiana. Sicuramente i dogmi si accrescono in numero con il progredire degli eventi storici della Chiesa. Un dogma non nasce mai a tavolino. Esso è la risposta ad una provocazione storica e ad una necessità che è quella di difendere la vera fede dall’errore affinché la comunità cristiana sappia cosa deve credere e cosa, invece, deve rifiutare perché non conforme alla regola di fede apostolica. Pertanto, quando il Magistero della Chiesa definisce e propone un “nuovo” dogma non sta aggiungendo nessuna novità al deposito della fede così come ci è stato trasmesso dagli Apostoli, ma sta solo esplicitando un aspetto che è già totalmente contenuto in esso. In sintesi, la Chiesa non può insegnare nulla di nuovo rispetto a quanto Cristo ci ha lasciato e gli apostoli hanno trasmesso.
(nn. 91-95) Potremmo chiederci, ma allora, data l’immutabilità dell’insegnamento dogmatico, nella fede della Chiesa non c’è possibilità di progresso?
L’insegnamento dogmatico della Chiesa, come lo sono ad esempio i contenuti del simbolo di fede (il Credo), le definizioni mariane (la Verginità perpetua di Maria, la sua Maternità divina, la sua Immacolata Concezione, -fino all’ultimo- la sua Assunzione in cielo anima e corpo), è immutabile, perché esprime il contenuto di una Rivelazione ricevuta da Dio e non il frutto di interpretazioni umane. Tuttavia, i dogmi possono richiedere un certo sviluppo “omogeneo” sia perché l’intelligenza della fede si approfondisce nel tempo, sia perché l’avvicendarsi delle epoche e delle culture provoca la Chiesa a delle risposte che può attingere solo al medesimo deposito della Fede. In merito San Vincenzo di Lerins affermava che “crescano pure, quindi, e progrediscano largamente e intensamente, per ciascuno come per tutti, per un sol uomo come per tutta la Chiesa, l’intelligenza, la scienza e la sapienza, secondo i ritmi propri a ciascuna generazione e a ciascun tempo, ma esclusivamente nel loro ordine, nella stessa credenza, nello stesso senso e nello stesso pensiero”. E San Giovanni Paolo II ci ricordava che progresso e fedeltà, verità e storia, non sono realtà conflittuali nella trasmissione della Rivelazione: Gesù Cristo, essendo Verità increata è anche centro e compimento della storia; lo Spirito Santo, autore del deposito rivelato e garante della sua fedeltà, è anche Colui che ne fa approfondire il senso lungo la storia, conducendo «alla verità tutta intera» (cfr. Gv 16,13). Questo sviluppo omogeneo della fede è a fondamento della Tradizione “viva” della Chiesa: il magistero ordinario dei Vescovi, l’intelligenza dei fedeli, la preghiera e la meditazione della parola di Dio, l’esperienza delle cose spirituali, l’esempio dei santi. Infatti, il Magistero autentico della Chiesa spesso assume e insegna autorevolmente contenuti che precedentemente erano intuizioni e oggetto di studio e di dibattito fra i teologi, creduto dai fedeli, e predicato e vissuto dai santi.
In tal senso va considerato il “sensus fidei” dei fedeli come fattore costitutivo per la crescita nell’intelligenza della fede. Di cosa si tratta? Potremmo definirlo semplicemente come “il buon senso” del battezzato. Si tratta propriamente di un dono dello Spirito Santo che i fedeli ricevono in quanto battezzati e che li rende testimoni e partecipi attivamente della funzione “profetica” di Cristo. Grazie a questo senso soprannaturale della fede, il battezzato anche se non è né un teologo né un esperto, può avere una intima conoscenza delle realtà divine della fede. Inoltre, come ci viene tramandato dalla storia stessa della Chiesa, è proprio grazie a questa peculiare “sensibilità”, conoscenza, che la Chiesa è stata aiutata e difesa nei momenti più difficili in cui la sua fede era pericolosamente attaccata e assediata da errori.
Possiamo dire che il battezzato che vive in Grazia di Dio, possiede quasi una specie di “istinto” per la Verità evangelica: “chiunque è della Verità ascolta la mia voce” (Gv 18,37b). Un “carisma” che fa sì che il cristiano di retta coscienza e intenzione sappia distinguere la vera fede dalle sue adulterazioni. È come -per usare alcune immagini di una grande scrittore come Chesterton- il saper distinguere “un pozzo” dalle “pozzanghere”; ciò che appartiene alla vera fede dal mondo, la Tradizione della Verità dalle tradizioni adulterate. Una sensibilità che ci permette di non cadere in quell’’anarchia demente e disumana’ che in particolar modo oggi imperversa col tentativo di svilimento dei dogmi, e della stessa legge naturale e divina. Una dimensione che va attentamente e autenticamente considerata per rimanere ancorati a quell’unica Verità che salva: “… Non potrei abbandonare la fede, senza ricadere dentro qualcosa di più vuoto della fede. Non potrei smettere di essere cattolico, senza diventare una persona dalla mentalità più ristretta…Ci siamo allontanati dalle pozzanghere e dai greti inariditi, in direzione dell’unico pozzo profondo: la Verità è nel fondo del pozzo”.
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Il Rosario si pone nella migliore e più collaudata tradizione della contemplazione cristiana. (San Giovanni Paolo II)