Pillole di SpiritualiTà
Il Rosario si pone nella migliore e più collaudata tradizione della contemplazione cristiana. (San Giovanni Paolo II)
di Natalia Manicini (nel musical, una delle novizie)
Lo spettacolo è andato in scena da meno di una settimana e per diversi giorni ho continuato ad avere in testa le canzoni e le battute, ho guardato e riguardato le foto e i video, ho scambiato impressioni e raccolto testimonianze di chi, incredulo del risultato finale, si è complimentato con tutti noi.
Adesso è trascorso il tempo giusto per poter raccogliere le idee in maniera strutturata e farne un racconto: non troppo presto, quando ancora le emozioni e la stanchezza mi pervadevano e non avevano avuto il tempo di decantare e sedimentarsi, facendo spazio a una lucidità che mi permette ora di vedere tutto con più chiarezza, né troppo tardi, quando probabilmente molti dei ricordi saranno sfumati, lasciando il posto soltanto alla bella sensazione di aver fatto qualcosa di straordinario, ma perdendo di vista tutti i dettagli che hanno reso questa esperienza unica e speciale.
Queste ultime giornate, prima, durante e dopo la rappresentazione mi sono sembrate dilatate: tutti abbiamo un po’ perso la cognizione del tempo, tutti ci siamo estraniati dal mondo reale per immergerci completamente nei personaggi, nelle scene, nelle battute e nelle canzoni di questo musical, un cammino condiviso che è cominciato quasi due anni fa.
Non è stato di certo un percorso facile, ma solo adesso mi sembra di afferrarne pienamente il senso.
La verità è che all’inizio siamo partiti con fatica: tante parti da assegnare, gli interpreti che non si trovavano, la sensazione che ci stavamo imbarcando in un’odissea senza possibilità di riuscita, soprattutto perché, a parte rare eccezioni, nessuno di noi aveva esperienza in questo campo e non aveva parametri oggettivi con cui confrontarsi per capire se era all’altezza dell’impresa e degli sforzi richiesti.
Inoltre, anche quando le parti principali erano state assegnate, tutto ci sembrava abbastanza noioso; ci sentivamo inadatti, incerti e scompagnati seduti al tavolo a leggere e adattare un copione decisamente impegnativo, come se ci trovassimo a mani nude davanti a una montagna impossibile da scalare.
Sono passati diversi mesi, andavamo avanti un po’ a stento, con troppe cose da fare (i canti, le coreografie, le scene da costruire) e soprattutto con una vita da organizzare intorno alle prove. Nel frattempo la regista è diventata mamma, i pastorelli sono diventati adolescenti e la strada ci sembrava ancora tanto lunga e tortuosa.
Quando penso a quel periodo credo che proprio allora ci stavamo facendo a vicenda il dono più grande: ci regalavamo il nostro tempo. Tempo che abbiamo sottratto alle nostre famiglie, al lavoro, al sonno, ai nostri interessi e che abbiamo messo a disposizione degli altri per un progetto comune in cui, nonostante tutto, cominciavamo pian piano a credere.
L’impegno andava oltre le sessioni di prove: studiavamo le parti a casa, registravamo video tutorial con le coreografie, rivedevamo i dialoghi, scrivevamo e imparavamo i controcanti e li ascoltavamo in macchina mentre andavamo e tornavamo dal lavoro o la sera prima di dormire.
A metà dello scorso anno il primo atto, tra prove mirate con i singoli e raduni collettivi, cominciava a prendere forma. Nel frattempo la squadra si era allargata e ormai eravamo in assetto definitivo. Non avevamo però ancora una data certa e a volte le prove erano davvero sfiancanti, perché ci volevano ore per rivedere anche solo una scena o parte di essa. Iniziava però a diffondersi un po’ di sana consapevolezza e si affacciava il primo barlume di fiducia in una possibile realizzazione dell’opera. Il gruppo si stava consolidando, ormai ci conoscevamo tutti e nascevano le prime complicità, la familiarità e quel cameratismo, che nel tempo sarebbero diventati il telaio, lo scheletro e la rete che ci avrebbero sostenuto fino alla fine, quando la stanchezza, i nervosismi e le ansie ci avrebbero messo a dura prova.
Finalmente con l’inizio del nuovo anno siamo riusciti a trovare la data e il posto, ma, se da una parte questo era lo stimolo a premere sull’acceleratore, dall’altra c’era la paura ormai concreta di non essere adeguati e di non riuscire a farcela nei tempi. Abbiamo quindi intensificato le prove e, di conseguenza, passato serate e pomeriggi interi tutti insieme: abbiamo pregato, mangiato, cantato e pianificato, abbiamo deciso, poi ripensato e cambiato le scene mille volte, e mille volte abbiamo rivisto le battute che non funzionavano; abbiamo adattato costumi e scenografie, di nuovo pregato e mangiato e poi ancora discusso e aggiustato un po’ gli orli delle gonne e un po’ le parole da dire. Abbiamo inciso le nostre basi musicali in un vero studio di registrazione, abbiamo più volte perso e ritrovato la concentrazione e la pazienza, ci siamo aiutati l’un l’altro con la memoria, abbiamo offerto e ricevuto passaggi in macchina, rimediato arredi e oggetti di scena, prestato e avuto in prestito scialli, scarpe, foulard, bretelle, cappelli, ombrelli e ginocchiere, abbiamo distribuito e consumato un numero incalcolabile di fazzoletti di carta, caffè, analgesici, bottiglie d’acqua, caramelle e spray per la gola.
Questo è stato anche il momento in cui persone e personaggi hanno iniziato a confondersi: Annamaria stava diventando una perfetta suor Lucia nei gesti e nell’intonazione della voce, Fratel Thiago ormai era stato ordinato sacerdote d’ufficio e per tutti era Padre Manuel, Francesco sicuramente andava anche a dormire con il mantello del diavolo addosso e noi tutti ce lo sognavamo anche di notte.
Tutta la matassa era ancora parecchio aggrovigliata: c’era tanta carne al fuoco, sicuramente tanto impegno, ma sembrava che l’insieme faticasse a prendere forma, tanto che un po’ tutti siamo stati presi da qualche attimo di sconforto.
A questo si aggiungeva il timore di non riuscire ad avere un pubblico consistente: la vendita dei biglietti andava un po’ a rilento e abbiamo creduto di correre il rischio di non riempire il teatro neanche per metà. Dopo una settimana lo spettacolo serale era sold out e avevamo addirittura persone in lista d’attesa.
Poi finalmente è arrivato il giorno delle prove generali in teatro: un lunedì pomeriggio in cui la messa a punto finale delle luci, degli effetti speciali e delle scenografie si sono alternate a mangiate colossali (tanto per fare una cosa nuova le suore avevano riempito i camerini di ogni ben di Dio!) e a incontri di preghiera itineranti, in cui gli attori si aggiravano mezzi “in borghese” e mezzi in abiti da scena: un’armata Brancaleone di personaggi in cui i pastorelli hanno imparato a dire il rosario, il diavolo chiudeva il corteo e le suore si confondevano con le attrici in costume di scena, al punto che qualcuna si è sentita chiedere chi fossero quelle “vere”.
Abbiamo vissuto scene di ordinaria (e straordinaria) follia dietro le quinte e in regia, dovendo far fronte a tutti quegli imprevisti che, come tali, non erano stati calcolati fino a quel momento. Ognuno di noi prendeva sempre più consapevolezza dei tempi scenici, della collaborazione necessaria e di quanto ciascun ruolo fosse fondamentale, sul palcoscenico o dietro le quinte non faceva alcuna differenza.
E poi è successo. Tutto è andato al proprio posto, tutto ha trovato un suo senso e il giorno successivo siamo andati in scena mattina e sera con grande successo di pubblico e di critica.
Nonostante le entusiastiche testimonianze raccolte, io non posso dirvi realmente com’è stato lo show per gli spettatori, perché avrei dovuto assistere dalla platea per poterlo sapere, ma posso raccontare cos’è stato per noi e cos’ha lasciato dentro di noi. All’improvviso tutta l’ansia, la tensione, la preoccupazione, le insicurezze e la paura si sono dissolte in qualcosa che è stato pura emozione. La musica, le parole, i balletti, il trucco, i costumi, gli sfondi e le persone si sono fusi insieme diventando il veicolo unico di un messaggio che tutti lì eravamo chiamati a consegnare. Se è stato un caso o un’esigenza scenica il fatto che la regista abbia interpretato anche il ruolo della Madonna, di certo non è un caso che la Madonna stessa si sia fatta Regista di tutto quello che è successo prima e durante lo spettacolo, e di tutto quello che sta succedendo e che succederà dopo di esso.
Ho sentito questa responsabilità dentro di me, ma non era un fardello pesante, anzi, paradossalmente, l’ho percepito come qualcosa che mi alleggeriva il cuore, un battito d’ali che mi sussurrava che avevamo intrapreso la strada giusta, quella che in realtà ci era stata indicata fin dall’inizio, quando nessuno ci credeva. E tutto si è sciolto negli abbracci finali tra di noi, in qualche lacrima che è scesa dai nostri occhi stanchi di sonno arretrato: erano lacrime di gioia pura, di sollievo, di commozione profonda, di chi aveva trovato una famiglia nei propri compagni di scena, di chi aveva realizzato che ciascuno aveva avuto bisogno degli altri per dare un senso al proprio ruolo.
Ci tengo a dire che il laboratorio teatrale culminato nella rappresentazione del musical, non è e non rimarrà fine a se stesso, anche se non posso nascondere la soddisfazione personale di aver fatto parte di una squadra che ha superato i propri limiti e le aspettative. Tutti abbiamo compreso che l’esibizione è stata il mezzo leggero e godibile attraverso il quale si propaga la missione di apostolato che siamo chiamati a svolgere e sono sicura che tutti hanno offerto prima il sacrificio e poi il successo, affinché fosse raggiunto l’obiettivo principale. Voglio sperare che quel seme, che dal palcoscenico abbiamo gettato con amore, possa germogliare e dare i frutti che la Madonna saprà certamente trasformare in grazie.
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